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"La funzione della norma in un sistema solidale di valori condivisi"


Per affrontare adeguatamente il tema del mio intervento non si può prescindere da un dato di partenza ideale-pratico. Coloro che iniziarono l’esperienza di Damanhur e coloro che ancora oggi vi aderiscono hanno un obiettivo semplice ma chiaro: la costruzione di una società e non semplicemente il sopravvivere in, o – peggio - subire una società in cui ci si è trovati per caso. In buona sostanza esiste un obiettivo comune, che non è però solo il convivere, e farlo possibilmente pacificamente, ma convivere andando insieme nella stessa direzione.
In questa costruzione comune un elemento fondante è costituito dalla concezione spirituale. Una concezione che ipotizza l’esistenza di un vero e proprio eco-sistema spirituale, in cui vi è una costante commistione tra trascendenza ed immanenza. La conseguenza sul piano filosofico-giuridico è che il sistema del diritto damanhuriano può essere definito, prendendo a prestito due grandi categorie coniate dagli studi di filosofia del diritto, sia “giusnaturalista” sia “giuspositivista”.
Dal giusnaturalismo mutua il rifarsi a idee e principi in qualche modo validi e riconoscibili per tutta l’umanità, da cui dedurre poi direttive pratiche di comportamento. Tra l’altro questa corrente, che pareva superata ai primi del Novecento, non essendoci alcun accordo sui principi-base, ha trovato nuovo vigore in tempi più recenti soprattutto in campo internazionale - penso ai “crimini contro l’umanità”, alla giustificazione teorica del Tribunale Penale Internazionale - ma fa capolino in qualche modo anche nella Costituzione Italiana, all’art.2 “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo” e all’art. 29 “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale…”.
Dal giuspositivismo mutua l’idea che le norme sono quelle che regolano praticamente la convivenza quotidiana e quindi i principi si possono indurre da queste. Per di più esse si modificano con il tempo e con il variare delle situazioni contingenti: si potrebbe dire che la concezione damanhuriana si avvicina di più alla teoria del “costruttivismo” giuridico: corrente di pensiero secondo cui contemporaneamente osserviamo e modifichiamo, influenziamo e veniamo influenzati, interpretiamo e creiamo; la realtà è allo stesso tempo scoperta ed inventata, osservata e costruita; noi non siamo completamente liberi, ma non siamo neanche completamente vincolati; subiamo pesanti interferenze dalla realtà, ma interveniamo pesantemente a modificarla.
Ne risulta una concezione molto dinamica, che spiega anche la circostanza che la Costituzione damanhuriana in trent’anni sia stata rinnovata più volte fino a giungere oggi alla decima edizione: non tanto nei principi fondanti, ma nei mezzi attraverso i quali raggiungere gli scopi ideali, facendosi forza della esperienza, delle mutate condizioni, ecc.
La definizione più comune della funzione di una norma giuridica è quella di “risolvere un possibile conflitto di interessi”, cioè stabilire quale degli interessi deve essere protetto e quale deve essere piegato.
Ma in una società solidale, formata da un numero di componenti che tra loro si conoscono ed hanno rapporti di interazione, dove vi è rapporto diretto tra il singolo soggetto sociale e la istituzione che si è scelto, dove le norme sono conosciute da tutti, la norma assume un’altra funzione: quella di indirizzare ed orientare i comportamenti al fine di aumentare la qualità della vita.
Le leggi, in Italia in particolare e nel mondo, tendono sempre ad aumentare: è la conseguenza solo di una maggiore complessità della società o è la spia di qualcos’altro? Ipotesi: forse è il frutto della perdita della capacità di indirizzo. Le istituzioni non incarnano i principi e quindi perdono la possibilità di guidare. Le leggi, il diritto oggi rincorrono le situazioni, delimitano lo spazio della libertà individuale, costituiscono semplicemente un semaforo che ti dice dove passare e dove non passare. Laddove invece permane una più stretta connessione tra etica e diritto, le leggi sono in grado di indirizzare ed orientare i comportamenti, aumentando la qualità della vita.
Questo funziona però dove viene mantenuta una relazione diretta tra gli individui appartenenti alla collettività, e dove tra gli individui e le istituzioni c’è riconoscimento reciproco.
Il sistema quindi, anche normativo, è riproducibile su società di un numero limitato di persone.
Perché, anche in una piccola società, c’è la necessità di prevedere delle norme? Perché le regole condivise danno vita all’organismo, regolano il sistema di comunicazione, costituiscono il sistema circolatorio dell’organismo stesso.
Nel nostro sistema c’è un originale strumento di crescita personale: quello che viene chiamato “legge individuale”, anche se apparentemente è improprio, dovendo essere le leggi per definizione generali ed astratte. Essa nacque come mezzo utile a migliorare comportamenti personali senza dover necessariamente creare delle norme generali, ma successivamente fu utilizzata anche come stimolo allo sviluppo dei pregi e dei talenti insiti in ciascuno. Lo sviluppo delle leggi individuali dovrebbe condurre all’ideale abolizione di leggi generali e alla loro sostituzione appunto con le sole leggi individuali: in una società evoluta le regole di convivenza comuni non dovrebbero necessitare più di codificazioni perché unanimemente riconosciute e rispettate, mentre la peculiarità di ciascuno dovrebbe rendere possibile la scelta di leggi personali per il sempre maggiore affinamento personale e collettivo.
In un tale sistema sociale quindi le leggi individuali – “ad personam” - non sono fatte per favorire qualcuno a scapito di altri ma per accrescere le possibilità di ognuno: aumentano la libertà individuale perché, accrescendo le proprie possibilità, in realtà il singolo aumenta la possibilità di azione e quindi, in ultima analisi, la propria libertà.
E qui veniamo all’idea di comunità, uno dei connotati della quale è proprio la sua composizione non fatta di un numero indefinito di individui, ma da un numero in qualche modo circoscritto.
In Italia c’è una ricchissima esperienza storica di tradizioni “comunitarie”, le quali peraltro – tranne quelle di matrice cattolica- hanno subito tutte una brutta fine: tant’è che nell’ordinamento c’è un vuoto normativo perché l’ordinamento non fornisce lo strumento giuridico adatto per consentire al movimento comunitario di manifestarsi oggi con pienezza.
E qui vorrei spendere poche parole per sgombrare il campo da un equivoco terminologico, ma che ha una forte matrice ideologica: spesso le esperienze circoscritte ad un numero limitato di persone, che magari costituiscono anche qualcosa di diverso dalla normalità, vengono con faciloneria, o peggio con voluto intento denigratorio, definite “sette”: l’etimologia deriva infatti dalla parola “separare”, intendendo così chi si pone in termini di frattura, quasi in antitesi con il vivere civile normale. Ma la comunità è tutt’altro che una setta: se la scriminante infatti è la chiusura in se stessi rispetto alla capacità di apertura al resto delle esperienze e delle idee con il confronto e la sinergia, allora esperienze come Damanhur solo strumentalmente - e direi dolosamente - possono essere definite “sette”.
La nostra è una comunità perché si rapporta continuamente e su mille fronti diversi con altre realtà, non pretendendo di esprimere “la” verità o “tutte le verità”: è più setta la nostra comunità o una religione che si assume portatrice dell’unica verità possibile?
Inoltre, in una setta c’è poco rinnovamento e si tende alla segretezza. Da noi invece il rinnovamento è continuo – si veda ad esempio il costante adeguamento della Costituzione - ed oltretutto sempre in una chiave pubblica.
Infine può definirsi una setta una realtà che, invece di preferire agire nell’ombra, cerca un riconoscimento istituzionale attraverso un necessario confronto?
Riconoscimento che oltretutto comporta una necessaria trasparenza nonché la collaborazione con le istituzioni?
Un ultimo dato: con il nostro corpo di norme siamo facilmente “leggibili” da chi è al di fuori di tale esperienza: è questo il sintomo della esistenza di una setta?
Posto quindi che “comunità” non significa separatismo o secessione da una convivenza più ampia, possiamo affermare che l’applicazione del nostro sistema è coerente con quella dello Stato nazionale: non si pone né in antitesi né in conflittualità rispetto ai teorici fini di quest’ultimo, che sono quelli di garantire comunque il benessere ed il convivere civile dei suoi abitanti.
Molti dei risultati raggiunti dalla comunità - tutela del territorio, riduzione dei costi sociali, ecc. - sono obiettivi che dovrebbero essere propri dello Stato: in altre parole, gli obiettivi dell’intervento della comunità sono sovrapponibili a quelli della pubblica amministrazione perché non perseguono fini di propria esclusiva utilità ma hanno di mira gli stessi risultati perseguiti dall’intervento pubblico.
Ed oggi abbiamo un forte addentellato costituzionale che stabilisce un principio importante a cui ancorare le scelte normative relative alle Comunità: si tratta dell’art. 118 della Costituzione Italiana, il cui IV ed ultimo comma recita testualmente: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.
Il principio di sussidiarietà è proprio quello che rende superfluo l’intervento pubblico laddove il fine perseguito può essere raggiunto già dall’iniziativa del privato, il quale può essere incentivato e favorito nell’interesse pubblico, con notevole risparmio, tra l’altro, di costi economici. Questa visione non è separatismo ma collaborazione e integrazione con lo Stato.

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